Come si può mettere attorno alla BELLEZZA la protezione della natura, la salute umana, ma anche l’etica pubblica e la moralità individuale.
Su La Repubblica di ieri 12 febbraio, così Salvatore Settis scriveva:
La BELLEZZA
SALVERÀ La santa alleanza di ambiente, paesaggio e cultura
«È urgente elaborare un pensiero comune
pratico, uno stesso insieme di convinzioni volte all'azione, innescata dal bene
comune e indirizzata alla politica». Sono parole di Jacques Maritain
all’Unesco, nel clima della guerra fredda (1947). Ma valgono ancora oggi come
un’agenda minima per reagire alla devastazione della natura, al cieco
accanimento con cui (gli italiani in prima linea) continuiamo a distruggerla
cannibalizzando ambiente e paesaggi. Si suol dire che «la bellezza salverà il
mondo». Sono parole che Dostoevskij (nell’Idiota) mette in bocca al principe
Myškin, e che in quel contesto hanno un contenuto intensamente mistico. Ma non
dobbiamo usarle come un mantra auto-assolutorio: dovremmo sapere, invece, che
la bellezza non salverà il mondo se noi non sapremo salvare la bellezza.
Intuizioni religiose e pensiero laico
devono convergere, secondo le parole di Maritain. Proviamo a darne qualche
esempio. Isaia 5,8: «Guai a voi che ammucchiate casa su casa e congiungete
campo a campo finché non rimanga spazio e restiate i soli ad abitare la Terra.
Ha parlato alle mie orecchie il Signore degli eserciti: “Edificherete molte
case ma resteranno deserte per quanto siano grandi e belle e, non vi sarà
nessuno ad abitarle”». Parole che paiono scritte per l’Italia di oggi, dove si
edifica “casa su casa” in nome della favoletta secondo cui solo l’edilizia è
motore di sviluppo; ma i 5 milioni di appartamenti invenduti e la
cementificazione del territorio senza nessun rapporto con l’inesistente
crescita demografica dimostrano che non è così. Al di là di questa suggestione,
il passo di Isaia evidenzia efficacemente il contrasto fra crescita delle case
e devastazione dei campi coltivati.
Altro esempio tratto dai libri sacri, il
detto Ama il prossimo tuo come te stesso, che è già nel Levitico e poi nei
Vangeli. Commentandolo, Enzo Bianchi ha scritto che questo precetto «non basta
più; oggi bisogna dire: “Amerai la Terra come te stesso”»; perché la Terra non
è «uno scenario per l'uomo, ma costituisce una comunità la cui relazione è
stretta e decisiva per gli animali, per le piante, per noi. In cui uno stesso
spazio è condiviso ed abitato ed in cui vive un unico destino, in cui ci deve
essere solidarietà per abitare armoniosamente in pace la Terra ». Ma che cosa
voleva dire Nietzsche, quando (in una pagina del Così parlò Zarathustra)
scrive: «Il vostro amore del prossimo è cattivo amore per voi stessi. Vi
consiglio io forse l'amore per il prossimo? No; io vi consiglio la fuga dal
prossimo e l'amore verso i più lontani; perché più nobile dell'amore per il
prossimo è l'amore per i più lontani e per l'avvenire. Il “futuro” e “quel che
è più lontano” siano dunque, per te, la causa che genera l'oggi». Dietro
l’apparente svalutazione del precetto evangelico emerge la sua radicalizzazione:
in nome della superiorità del futuro sul presente, Nietzsche suggerisce che
dobbiamo amare non tanto i “prossimi”, troppo simili a noi, bensì i lontani:
soprattutto i lontani nel tempo, le generazioni future. È per loro che dobbiamo
preservare la Terra.
Nella vivace discussione sui diritti
delle generazioni future, i temi ricorrenti sono la protezione del clima e
dell’atmosfera, la conservazione della biodiversità, la tutela dell’ambiente,
la gestione delle fonti di energia e dei rifiuti, il controllo delle
biotecnologie, la tutela del patrimonio culturale. Il nesso forte tra bellezza
e salute (del corpo e della mente), e dunque fra “paesaggio” e “ambiente”, è
parte essenziale di questa storia, che ha radici assai antiche. In un trattato
attribuito a Ippocrate, Arie acque luoghi (fine del V secolo a.C.) è chiaro il
nesso fra malattia e ambiente; perciò le patologie vi sono distinte fra
“comuni” a tutti e “locali”, cioè legate a infelici condizioni ambientali. Fu
questa una preoccupazione costante della medicina greca, e non solo: un decreto
di Atene del 430 a.C. vietava «di mettere i pellami a imputridire nel fiume
Ilisso, di praticare in quell’area la concia delle pelli e di gettarne gli
scarti nel fiume». Nello stesso spirito, Platone scrive nelle Leggi che
«l’acqua si inquina facilmente; perciò è necessario proteggerla per legge. E la
legge deve punire chiunque corrompa l’acqua sapendo di farlo, condannandolo a
pagare un’ammenda e a ripulire l’acqua a proprie spese».
Oggi dobbiamo ripetere gli stessi identici
principi, ma estendendo enormemente lo sguardo. Nessun crimine ambientale è
abbastanza lontano da noi da poterlo ignorare: non la deforestazione in
Brasile, non il “continente di plastica” (grande quattro volte l’Italia) che
galleggia nel Pacifico, non la distruzione di specie vegetali e animali nel
Madagascar, non le conseguenze dei disastri nucleari in Ucraina e in Giappone.
In questo pianeta senza vere lontananze, “l’amore verso i più lontani” fa
tutt’uno con la cura per noi stessi. Ma le generazioni future hanno davvero
diritti, anche se non sono in grado di rivendicarli? E in nome di che cosa noi
dobbiamo rappresentare oggi i loro diritti di domani?
Distinguiamo, come facevano i Romani,
gli immutabili principi del Diritto ( ius) dalla mutevole varietà delle leggi (
leges), calibrate ad arbitrio dei governanti. Orientiamo la bussola sulle
istanze di fondo di un alto sistema di valori incardinato sulla protezione
della natura e della salute umana, ma anche sull’etica pubblica e la moralità
individuale. Le singole leggi possono conformarsi o meno a questi alti
principi, ma quando non lo fanno la disobbedienza civile è un dovere.
Disobbedienza ispirata dalla nozione di pubblico interesse, che rilancia temi
assai antichi: perché quando gli antichi Statuti dei Comuni e le leggi degli
Stati preunitari parlavano di bonum commune o di publica utilitas avevano di
mira proprio i diritti delle generazioni future, ed è per questo che hanno
costruito per noi le città che abitiamo, i paesaggi che andiamo devastando.
Nel suo Principio responsabilità (1979),
Hans Jonas scrive che «la comunanza dei destini dell’uomo e della natura,
riscoperta nel pericolo, ci fa riscoprire anche la dignità propria della
natura, imponendoci di conservarne l’integrità ». È «l’imperativo ecologico»,
che secondo Peter Häberle comporta «un nuovo sviluppo dello Stato
costituzionale, che deve ormai assumere responsabilità verso le generazioni
future, e perciò è obbligato a tutelare l’ambiente, deve cioè diventare uno
Stato ambientale di diritto ». È di qui che nascono la nozione di ecocidio e la
proposta di creare un tribunale internazionale contro i crimini ambientali. È
di qui che ha origine il nesso forte fra diritto ambientale e diritto alla
salute, che si sta affermando nelle nuove Costituzioni come quella della
Bolivia (2009), che prescrive «un ambiente sano, protetto ed equilibrato» per
«gli individui e le comunità delle generazioni presenti e future» (art. 33). Ma
la priorità del bene comune è centralissima già nella nostra Costituzione, in
particolare nell’art. 9 (tutela del paesaggio e del patrimonio artistico), nel
suo intimo nesso con l’art. 32 (diritto alla salute), evidenziato dalla Corte
Costituzionale. Ambiente, paesaggio, beni culturali formano un insieme unitario
e inscindibile con la cultura, l’arte, la scuola, l’università e la ricerca.
Con esse, concorrono in misura determinante al principio di uguaglianza fra i
cittadini, alla loro «pari dignità sociale» (art. 3), alla libertà e alla
democrazia. Per la nostra Costituzione, attualissima ma inattuata, la tutela
dell’ambiente, del paesaggio, dei suoli agricoli è strumento di libertà e di
democrazia. Perciò è triste che si parli tanto di cambiare la Costituzione, e
così poco di metterne in pratica i principi e lo spirito."